Incontro il maestro Neschling in una calda mattinata estiva nella sua residenza a Castagnola, affacciata sul lago. La conversazione ci trasporta dal Brasile in Europa e ritorno, in una sintesi insolita di movimenti spaziali e geografie della mente. La musica per John Neschling è insieme il formalismo teorico della scuola viennese e la passionalità ritmica brasiliana. Contiene il contrasto – e continuo inseguimento – tra serietà e divertimento, profondità e leggerezza, solidità e grazia. John Neschling è nato a Rio de Janeiro (1947) da una famiglia ebrea austriaca. Gli anni di studio sono densi di un desiderio pieno e severissimo di acquisizione della tecnica, fino a spostarsi diciassettenne all’Accademia Orchestrale di Vienna, dove studia con Hans Swarowsky. Ma la vitalità musicale brasiliana lo attirerà sempre con energia magnetica, riportandolo nel suo paese natale a più riprese fino a costruire una delle sue opere più grandiose, l’Orchestra Sinfonica dello Stato di San Paolo (OSESP), che doterà di una delle sale da concerto migliori al mondo. Il prossimo 16 novembre 2022, John Neschling dirigerà l’Orchestra Sinfonica del CSI nel concerto inaugurale della stagione.
Maestro Neschling, la sua lunga e avvincente carriera l’ha portata a dirigere orchestre nei teatri e nelle sale da concerto di tutto il mondo. Iniziamo dalla musica. Che cosa significa dedicare la propria vita alla musica? Che cosa ha significato per lei?
Un giorno, quando avevo solo due anni, mentre giocavo agitando le braccia in aria, mia madre disse: “Fate silenzio, John sta dirigendo!”… La musica è sempre stata il mio desiderio di vita, la mia strada. Ho iniziato lo studio del pianoforte a quattro anni, ma presto ho capito che non sarei mai diventato un pianista: suonavo il pianoforte per rincorrere i miei sogni musicali. Io desideravo ogni cosa della musica: scrivere, sentire, analizzare… Così, a diciassette anni, ho lasciato il Brasile per l’Europa e ho iniziato a studiare direzione all’Accademia di Vienna.
La sua famiglia ha scritto un’importante pagina di storia della musica – sua nonna Malvine era cugina di Arnold Schönberg – e lei è cresciuto in un paese, il Brasile, in cui la cultura musicale è pervasiva, elemento fondante dell’identità nazionale. Come si è sviluppata la sua formazione musicale e di che cosa si è alimentata nei primi anni di lavoro?
Sono nato in Brasile da una famiglia ebrea dell’Europa centrale. In casa parlavo il tedesco e sulla strada il portoghese. Nella mia vita e nella mia carriera musicale ho saputo alimentare entrambe le culture, unendo la passione dell’energia ritmica brasiliana alla profondità formale mitteleuropea. A Vienna, il mio grande maestro è stato Hans Swarowsky. Da lui ho imparato la venerazione verso Mozart, Beethoven, Brahms… Poi ho seguito con grande ammirazione e amicizia il lavoro di Bruno Maderna, con cui sono stato a Tanglewood, negli Stati Uniti, dove ho conosciuto Leonard Bernstein, che ha svelato una verità nascosta dentro di me: con Bernstein ho imparato l’amicizia con la musica, il saper prendere la musica come una cosa simpatica, divertente. Se Swarowsky era teorico e formalista, Bernstein era libertino, e questa nuova consapevolezza ha completato il quadro del mio fondamento musicale.
Ripercorriamo brevemente la sua carriera. Quali sono state le tappe principali?
Nel ’72 vinsi il premio della London Symphony Orchestra e questo aprì molte occasioni di lavoro in Europa. Eppure, decisi di rientrare in Brasile, attirato da una forza che potrei definire “ancestrale”. La mia formazione brasiliana durò ben dieci anni, un periodo in cui ho lavorato con tutti i musicisti classici e popolari, e ho iniziato a comporre per il teatro, la televisione e il cinema. Poi nell’82 ho avvertito i limiti del contesto brasiliano e sono rientrato in Europa: sono stato direttore artistico del Teatro San Carlo di Lisbona e del Teatro di San Gallo; a seguire sono stato direttore stabile al Massimo di Palermo, a Bordeaux, al Teatro dell’Opera di Vienna. Ho diretto orchestre in tutta Europa, fino a quando nel ’98 si è aperta per me una nuova stagione brasiliana. Fui invitato a ristrutturare l’Orchestra Sinfonica dello Stato di San Paulo (OSESP) che in quel momento era a pezzi. Poiché avevo scarsa fiducia nelle possibilità di portare avanti un certo tipo di lavoro in Brasile, ho posto al Governatore di San Paolo delle condizioni inaccettabili: volevo quadruplicare lo stipendio ai musicisti per fare in modo che prendessero con il massimo impegno il loro lavoro in orchestra e costruire una sala da concerto degna dei migliori musicisti al mondo. Con mia grande sorpresa, ogni mia richiesta fu accolta. Così, dal ’98 al 2010, ho creato da zero un’orchestra che è diventata una delle venti più grandi orchestre del mondo. Abbiamo fatto un lavoro enorme, e l’orchestra ha continuato a funzionare amministrativamente e musicalmente anche dopo di me.
Come tutte le figure di leadership, anche un direttore d’orchestra può essere un visionario “traghettatore”, capace di portare la sua orchestra in una dimensione nuova. Creando un prima e un dopo. Come può descrivere il lavoro compiuto con l’OSESP?
Io sono un “orchestra-builder”, mi piace costruire. Ho sempre lavorato con orchestre che avevano bisogno di un direttore, che dovevano costruire un suono, un’idea di suono. Ho anche sempre tenuto a mente che, come direttore, io non sono niente, sono i musicisti a creare il suono: il mio compito, oltre a favorire una certa interpretazione, è costruire con i musicisti una relazione che li porti a suonare al meglio. Se non si ha un certo amore per i musicisti, e i musicisti non hanno una certa simpatia per il direttore, allora non potrà realizzarsi alcunché di veramente speciale. Tutto questo si costruisce con il tempo, con l’impegno, portando nel lavoro la propria umanità.
Ci siamo chiesti come democratizzare l’accesso alla musica classica, perché quando la gente si accosta a questa musica, la ama.
Senza retorica: che cosa significa per una città, per una collettività, avere a disposizione una sala da concerto come la Sala São Paulo al Júlio Prestes Cultural Center? Se parliamo di accessibilità alla musica, di partecipazione culturale, qual è la sua opinione sul pubblico?
Sapevo che una grande orchestra non poteva affermarsi senza una grande sala. Gli amministratori pubblici non hanno sempre coscienza che, dedicandosi alla cultura, possano imprimere il proprio nome nella storia di una nazione. In un momento storico in cui il Brasile iniziava a emergere sulla scena economica del mondo, doveva essere noto anche come grande potenza culturale. Abbiamo quindi costruito la sala lavorando con i migliori ingegneri acustici del mondo e l’abbiamo progettata fin da subito con tutti i servizi di accessibilità, come il grande parcheggio sotterraneo. Poi abbiamo sviluppato una micro-politica culturale molto incisiva. Quando pensiamo al pubblico, non dobbiamo porci il problema di come farlo venire in sala, ma di come fargli amare questa sala. Fin da subito era chiaro che il nostro compito fosse quello di fare in modo che la sala divenisse un asset per San Paolo: anche chi non sarebbe mai venuto ad ascoltare i concerti, doveva sentirla propria. Le persone di San Paolo dovevano amare la loro orchestra come la loro squadra di calcio e andare alla sala come si va allo stadio. La questione che ci siamo posti, quindi, non è stata “popolarizzare” la musica classica: questo non si potrà mai fare. La musica classica è classica, non è popolare. Ci siamo chiesti come democratizzare l’accesso alla musica classica, perché quando la gente si accosta a questa musica, la ama. Quando ho avviato il lavoro con l’OSESP, l’orchestra aveva 60 abbonati; quando me ne sono andato ne contavamo 12mila e dovevamo suonare ogni concerto con 4 repliche per soddisfare tutte le richieste. Ciò che siamo riusciti a creare è stato una specie di connubio fra qualità di esecuzione, benessere dei musicisti e suonare in una sala meravigliosa. Oggi la Sala São Paulo è una delle dieci migliori sale da concerto del mondo, i musicisti vogliono suonare a San Paolo.
Quanto è importante l’educazione musicale in questo connubio?
Contemporaneamente al lavoro con l’Orchestra ho creato l’Accademia, perché nessuna super-struttura può esistere senza la sua infra-struttura. Fin da giovane ho sempre ritenuto fondamentale il valore dell’educazione musicale, che è un concetto ampissimo: è l’insegnamento totale di un linguaggio. Bisogna conoscere la musica come una lingua, averne chiara la grammatica, la sintassi, l’oratoria. Altrimenti il pensiero musicale non può essere sviluppato. Quando parli musica e ascolti un brano, lo senti diverso. Sai comprendere la differenza degli intervalli, la melodia… Sono sicuro che sia più facile studiare musica quando si parla musica.
Maestro, torna a dirigere l’Orchestra sinfonica del Conservatorio della Svizzera italiana dopo un’esperienza nel 2012. Che cosa si aspetta da questi nuovi giovani musicisti? Come le appare il nostro Conservatorio a distanza di dieci anni?
È interessante notare quanto sia cresciuto il Conservatorio negli ultimi anni, si è molto sviluppato e ingrandito. Generalmente, le orchestre dei conservatori sono composte da giovani entusiasti e a me piace molto lavorare con loro, perché i giovani musicisti che si affacciano alla carriera musicale si aspettano le cose più belle dalla musica e questo è formidabile.
Ci attende un concerto di notevole portata: ha scelto per la nostra Orchestra sinfonica la Seconda Sinfonia di Rachmaninoff e il Choros no.6 di Villa-Lobos. Come può commentare questo programma e che cosa può consigliare al pubblico che sarà in sala?
Questo programma è molto contrastante e mi piace moltissimo. È composto da una parte brasiliana e da una parte europea. Villa-Lobos è un genio della musica del XX secolo e il suo Choros 6 è uno dei suoi brani più gradevoli e impegnativi. Il choro è un insieme di piccoli chorinhos – una forma brasiliana di musica da camera che si suona negli spazi pubblici, all’aperto – senza alcuna ristrettezza formale. Il numero 6 è uno dei più liberi, più belli, più popolari. La Seconda Sinfonia di Rachmaninoff è enorme, difficilissima. Si tratta di una sinfonia romantico-classica che presenta tutte le caratteristiche di una grande sinfonia, superando tuttavia il romanticismo esacerbato. La apprezzo perché può essere assorbita senza grandi sforzi mentali. Questo programma dimostra la mia fiducia negli studenti del Conservatorio, perché avremo bisogno di altissima finezza tecnica e grande preparazione. Il concerto avrà momenti straordinari e grande colore orchestrale: il pubblico in sala non dovrà provare venerazione, ma l’amicizia, con la musica!