Perché l’arte? È una domanda che mi sono posto spesso, nonostante faccia il musicista da oltre un decennio. Lecita la domanda, complessa la risposta.
Sembrerebbe una cosa così innaturale: perché l’essere umano sente il bisogno di raccontarsi attraverso un gesto, un segno, un suono? Siamo davvero scimmie curiose.
Questo interrogativo però non deve essere un peso, ma può diventare un filo conduttore che ci accompagna nel nostro percorso artistico.
Al Conservatorio della Svizzera Italiana, durante il corso di Contemporanea II, ho avuto il piacere di conoscere il Maestro Fabrizio Rosso: musicista, compositore, regista e insegnante. Mi ha colpito il suo modo di trasmettere la conoscenza, intrecciandola alla propria esperienza con la chiarezza di chi vive ciò che insegna. Ho capito subito che sarebbe stato interessante affidargli questa domanda, vedere come l’avrebbe ruotata tra le dita, giocata, decostruita.
Non solo perché è un artista multidisciplinare – e quindi la questione lo attraversa in più dimensioni – ma perché, fin dal primo incontro, ho avuto la sensazione che fosse la persona giusta a cui chiederlo.
Chi è Fabrizio Rosso?
Fabrizio Rosso, classe 1969, è un artista multidisciplinare che affonda le proprie radici nel nutriente terreno della musica e dirama le sue competenze artistiche nel teatro e nel cinema.
L’imprinting alla musica e l’approccio al pianoforte derivano dalla sua famiglia, restauratori di organi, un caso significativo che concede al maestro la possibilità di crescere con questa speciale forma di comunicazione e di espressione. Gli studi musicali, nella città di Torino, Zurigo e di Lugano, lo preparano al mondo compositivo e concertistico, mettendolo in contatto con un variegato repertorio musicale, prediligendo soprattutto quello Classico e Romantico. È però l’incontro artistico con il repertorio di alcuni compositori come Schoenberg e Stockhausen che innestano in lui il concetto dell’altro: vedere le conquiste espressivo musicali non convenzionali di questi autori è stato come rompere la quarta parete e trovare al di là un mondo di cose diverse e possibili.
Da qui approfondisce la musica contemporanea, sviluppando quella creatività personale che poi lo porterà ad una progressiva diversificazione artistica. Frequenta diversi ambienti artistici, incontra e studia assieme allo stesso Karlheinz Stockhausen, i suoi brani musicali contaminati da componenti sceniche sono la porta poi per approfondire anche il teatro: lo spazio perfetto per poter far uscire la musica dalla solita sala da concerto. Saper gestire il vortice dinamico di tutti questi atomi nati dalla conoscenza dell’altro, sembra piuttosto impegnativo e complesso. Quali difficoltà ha trovato durante il suo percorso?
« Ogni cosa ha la sua ombra: ho dovuto affrontare, nella multidisciplinarietà, il rischio della dispersione, perché è fin troppo facile smarrirsi nel marasma delle idee e degli ambiti. Pensiamo, per esempio, ad un musicista che ha imparato per più di un decennio ad eseguire un certo repertorio standard e che poi si trova improvvisamente libero di riassemblare quegli atomi in qualcosa di diverso, arriva sicuramente il momento in cui si chiede se sia davvero possibile o persino lecito »
Forse perché, come direbbe Cacciari, stiamo creando un mondo di Ministri e non più di Maestri; ci si sente quasi in colpa nel nutrire più di un interesse oltre a quello principale della propria carriera artistica. Se studi pianoforte, fai il pianista. Se studi teatro, fai lo scenografo. Se studi cinema, fai il regista.
Tutto assieme? Ma che, sei impazzito? No, assolutamente no. Come potresti? E invece sì, è possibile. «L’incontro con Sylvano Bussotti – compositore e regista poliedrico – ha sciolto per me questo grande dilemma, restituendomi la serenità di sentirmi libero di nutrire più aspetti della mia arte, così come dopotutto facevano i maestri del Rinascimento».
La multidisciplinarietà del Maestro Rosso si fortifica grazie non solo agli studi di regia del suono con Stockhausen e agli approfondimenti nel teatro e nel cinema alla USC di Los Angeles, ma anche attraverso un percorso professionale che lo ha visto protagonista in contesti internazionali di altissimo prestigio. Ha infatti presentato progetti in sedi emblematiche quali la Biennale di Venezia, i Berliner Festspiele, l’Hangar Bicocca di Milano, la Tonhalle di Zurigo, il Piccolo Teatro di Milano, LAC Lugano Arte Cultura, il Teatro Manzoni di Bologna e il Kunstmuseum di Basilea. La sua profonda collaborazione con Karlheinz Stockhausen – culminata con la prima esecuzione e registrazione di “Sonntags-Abschied”, ultimo capitolo del ciclo operistico LICHT – ha ulteriormente arricchito il suo bagaglio artistico, mentre sul fronte performativo si è distinto anche per la regia teatrale “Extravagancia #0”, selezionata per il 2015 Schweizer Theatertreffen, e la performance di danza “La forme de l’âme”, presentata al Modern Body Festival de L’Aia, nei Paesi Bassi. Tutto ciò si traduce in una formula bilanciata e soddisfacente, che abbraccia con naturalezza l’insegnamento – al Conservatorio della Svizzera Italiana di Lugano – e il libero professionismo, alimentando progetti musicali e performativi sempre all’avanguardia.
Il Maestro Rosso ha saputo raccontarsi facendo emergere un tema piuttosto importante: l’incontro con l’altro. Quanto è importante averne accesso?
« Le vite che sono cambiate o migliorate proprio grazie all’incontro con qualcosa di nuovo, come un’opera musicale o artistica, sono più di quante pensiamo. Questo non dovrebbe dipendere però dalla fortuna, tutti dovrebbero averne accesso.
Tra i grandi compositori dei nostri tempi, può farci comodo anche ciò che aveva accusato Steve Reich, il pioniere del minimalismo e del phasing: c’è sempre una certa limitazione nella nostra educazione. Il compositore non si è fermato solo a quanto era in programma nel proprio curriculum accademico, ovvero la musica dodecafonica e seriale, ma ha saputo andare oltre, ha avuto fame d’altro e si è appassionato di altri generi, da Bach a Stravinskij fino al jazz di Charlie Parker e di Miles Davis. Per quanto ci possiamo impegnare, non sarà mai possibile fino in fondo mettere a disposizione degli studenti tutto ciò che è possibile conoscere, ma sicuramente dovrebbe essere una delle missioni fondamentali di un insegnante poter trasmettere questa fame ai propri allievi »
Forse qualcuno si starà chiedendo perché è importante conoscere l’altro, un po’ come un ragazzino a cui, a scuola, non interessa studiare matematica e non vorrebbe proprio farla: studiare è veramente un privilegio, perché ti dà la possibilità di conoscere molte cose, e quando conosci molte cose hai la piena e vera libertà di scegliere, di scegliere cosa ti piace per davvero.
Dopo aver conosciuto meglio Fabrizio Rosso, l’ho voluto interrogare sulla sua arte. Ho avuto modo di guardare alcune sue opere e alcuni film, che sono gratuitamente accessibili online dal suo stesso sito, e ho notato un certo leitmotiv: una peculiare indagine sulla dimensione intima umana del dolore, della morte e della salvezza, trasmessa attraverso la metafora e accarezzata da un certo senso religioso. Queste tematiche sono chiaramente coerenti con la stessa persona che le vuole evidenziare, Fabrizio stesso gioca la vita attraverso la dimensione del viaggio, consapevole di essere immerso in correnti che a volte può dirigere, altre volte solo attraversare. Non si rifugia nel Porto, ma affronta il Mare, sapendo che la sicurezza è spesso un’illusione e che non rischiare significa restare immobili. Così, come suggerisce il Qoelet, getta il suo pane sulle acque, perché sa che solo chi osa navigare potrà ritrovare ciò che ha seminato nel tempo.
Quale dovrebbe essere l’effettivo ruolo dell’artista? Come mai ad una certa sente di prendere e di fare un qualcosa, ma soprattutto, per chi lo dovrebbe fare? Fare arte è un dono per se stessi o è un servizio per gli altri?
« La questione è piuttosto chiara: l’arte è un fatto di condivisione, la condivisione di una propria verità. Riprendendo la critica di Platone all’arte nella Repubblica, è chiaro che si tratta di una verità relativa, ma è una verità in cui tutti si possono immedesimare. Trasmettere questa verità richiede inoltre una certa onestà e una certa fedeltà a se stessi, perché non ha senso fare ciò che piace agli altri, perché a priori questo è insondabile: i gusti cambiano col tempo, le mode scorrono assieme al cambiamento della società. Dipingere la propria verità è la chiave nel produrre qualcosa di autentico.
L’essere umano è profondamente caratterizzato da una continua necessità di senso, e non potrà mai sfuggire a quella angoscia heideggeriana che lo riporta coi piedi per terra, ad assaporare il rugginoso sapore del dolore. Oggi viviamo in una società economica che, forse più di tutte, mira a trasformare questa necessità di senso in denaro, cercando il più possibile di indurci a riempire questo vuoto con un qualcosa di materiale e di non necessario. Ma l’uomo stesso aveva trovato una cura genuina al dolore e alla solitudine, nella mitologia, nella religione e soprattutto nell’arte: il poeta, lo scrittore, il pittore, il compositore, l’artista, parlando delle proprie esperienze, della propria verità, ti concede un letto accogliente in cui riposare, in cui sentire quella compagnia che non riempie il vuoto, ma che te lo fa comprendere, abbracciare. Il giusto modo di affrontare le cose »
Che forse allora esista un’arte migliore di un’altra? Pensiamoci bene: se l’arte è una medicina spirituale al nostro acido corporeo allora quella autentica dovrebbe essere sempre di un certo spessore, la leggerezza non è utile.
« Non bisogna cadere in errore di giudicare male le cose: l’arte è sia divertimento (da de-vertere, portare altrove) sia intrattenimento (una buona distrazione) ed essendo un prodotto umano non può non subire certe dinamiche sociali. Esiste, ed è sempre esistita, una certa domanda artistica facendo quindi emergere di più alcuni prodotti che altri: ad esempio nel ‘700 tutti volevano il teatro d’opera, noi a posteriori conosciamo le opere e gli autori più importanti di quell’epoca, ma al tempo c’era più produzione di quanto pensiamo. Solo poche opere hanno la capacità di segnare il tempo. Non bisogna nemmeno denigrare tutta la produzione commerciale, poiché a volte troviamo una genuina autenticità nel trasmettere quella verità personale, condita da una leggerezza tale da rendere il messaggio più chiaro e digeribile».
Ad esempio, tra le opere televisive che considero più significative, Adventure Time occupa un posto di rilievo. Questo cartone di Cartoon Network, dietro una facciata di comicità surreale e apparente leggerezza, cela una narrazione profondamente esistenziale. Attraverso le avventure di Finn e Jake, la serie esplora il viaggio come metafora della crescita personale, indagando temi complessi come l’identità, la percezione del sé e il peso della memoria. La sua capacità di mescolare ironia e malinconia, evasione e introspezione, la rende un’opera di rara profondità.
Su una linea simile, Fabrizio Rosso mi ha parlato di Ginga Tetsudō 999, l’epico viaggio di Tetsuro Hoshino a bordo di un treno spaziale che attraversa la galassia. Il suo sogno è ottenere un corpo meccanico, credendo che l’immortalità sia la chiave per un’esistenza superiore. Tuttavia, nel suo peregrinare tra mondi e incontri, scopre che l’umanità non risiede nell’invulnerabilità artificiale, ma nella fragilità e nei sentimenti che rendono autentica l’esperienza del vivere. Proprio come Adventure Time, anche Galaxy Express 999 trasforma il viaggio in una ricerca interiore, rivelando che la vera maturità non consiste nell’aspirare a uno stato immutabile, ma nel comprendere il valore dell’impermanenza. In un mondo dilaniato da crisi economiche, politiche, ambientali e sociali, può esserci ancora spazio per l’arte?
« La situazione geopolitica di questo decennio evidenzia un vento contrario alle relazioni umane, alimentato da ignoranza, paura e dalla tendenza ad affidarsi a chi sfrutta queste debolezze per consolidare il proprio potere. Ma se l’ignoranza divide e la paura paralizza, l’arte ha il potere opposto: illumina, unisce, libera. L’arte è catarsi e consapevolezza, una bussola che orienta lo sguardo oltre la superficie del mondo, offrendo spazio al dubbio, alla riflessione, alla possibilità di superare la narrazione imposta. Non è un rifugio passivo, ma una forza attiva che protegge dall’alienazione e dalla solitudine, un ponte tra passato e futuro, tra individuo e collettività. L’arte non ti lascia solo, non ti tradisce. Ti accoglie dal gelo della morte e della sofferenza, restituendoti la tua umanità »
Perché l’arte non è solo immagine o eco. Perché l’arte è libertà di scelta.
Edoardo Maria Pedrelli (MA in Performance)
in collaborazione con Fabrizio Rosso