Francesco Di Rosa, già oboe solista del Teatro alla Scala di Milano con Riccardo Muti e Daniel Barenboim e primo oboe solista dell’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia, ha vinto il concorso per la classe di oboe alla Scuola universitaria di Musica. Lo abbiamo intervistato per conoscerlo meglio.
Come è nata la sua passione per la musica e quando ha deciso che sarebbe diventata la sua professione?
Nella famiglia di mio padre tutti erano musicisti amatoriali. Mio nonno ha suonato e – per un periodo – diretto la banda del paese, trasmettendo la sua passione ai figli, i miei zii. Mio padre è stato il primo a insegnare a mia sorella e me un po’ di solfeggio e pianoforte, facendo diventare la musica una cosa naturale per entrambi. L’oboe è stato un caso fortuito: quando avevo 10 anni, hanno aperto una succursale del Conservatorio di Pesaro vicino a casa mia, e mi sono iscritto. Volevo studiare pianoforte, ma non c’erano posti disponibili. Mi hanno proposto il fagotto, ma poi non hanno aperto la classe perché ero l’unico iscritto, così mi hanno indirizzato verso l’oboe. Mi è piaciuto immediatamente, è stato amore a prima vista. Intorno ai 18 anni poi, nonostante fossi iscritto all’università con l’intenzione di conciliare la passione per la musica con lo studio, mi sono dedicato completamente all’oboe. Ho cominciato a vincere le prime audizioni e da lì ho capito che avevo delle opportunità. Successivamente, ho incontrato Maurice Bourgue con cui ho studiato per due anni e che mi ha aiutato a migliorare la preparazione; è stata una fortuna perché da quel momento sono arrivate le soddisfazioni, le vittorie nei concorsi.
Qual è il ricordo più bello della sua esperienza all’Orchestra del Teatro alla Scala sotto la guida di Riccardo Muti? E a Santa Cecilia?
Ho trascorso circa 15 anni alla Scala, dieci con Muti e il resto con Barenboim. La vittoria del concorso con Riccardo Muti e la mia selezione da parte sua sono state fondamentali per la mia carriera, perché mi hanno aperto molte porte. Questo è un ricordo davvero prezioso. Durante il periodo con Muti come direttore, ricordo, con un po’ di nostalgia devo ammettere, le sue produzioni della trilogia verdiana: sono state indimenticabili. A Santa Cecilia, invece, la soddisfazione è stata quella di incontrare e collaborare con direttori con cui non avevo mai lavorato prima, come Petrenko e Blomstedt, e di suonare nelle sale più importanti d’Europa. La recente notizia, poi, della nomina di Harding come direttore musicale è fantastica e poter lavorare con un professionista di tale calibro è una grande soddisfazione.
Insieme ad Alessio Allegrini e ad altri, fa parte della Direzione dell’Associazione Musicians for Human Rights e della Human Rights Orchestra. Perché crede in un progetto così importante?
Alessio, che è come un fratello per me, mi ha coinvolto in questo progetto. Anche se riusciamo a dedicargli poco tempo per i nostri impegni professionali, crediamo che sia fondamentale, quasi un dovere, per noi musicisti che abbiamo il privilegio di praticare questa professione, impegnarci per coloro che non hanno avuto la nostra stessa fortuna e che vivono ai margini della società. Vogliamo utilizzare la nostra visibilità per fare qualcosa di concreto per loro. A volte, la nostra professione può sembrare strana e non sempre viene riconosciuta come una professione utile, ma attraverso queste piccole azioni che svolgiamo possiamo fare qualcosa per aiutare coloro che ne hanno bisogno. Spesso si pensa alle violazioni dei diritti umani nei paesi del terzo mondo, alle dittature e all’estremo oriente, ma anche nella nostra realtà non si prestano sempre la dovuta attenzione e sensibilità al rispetto dei diritti umani. In 13 anni di attività, abbiamo raccolto centinaia di migliaia di fondi e siamo riusciti a sostenere decine di associazioni che si impegnano concretamente nel sociale e che promuovono progetti di solidarietà, inclusione e sviluppo di tecnologie in paesi sottosviluppati. Abbiamo anche realizzato progetti di sensibilizzazione sui diritti umani nelle carceri e nelle scuole. Questi concerti sono speciali perché tutti condividiamo lo stesso obiettivo, con la massima disponibilità e impegno, e ci arricchiscono enormemente.
Perché ha scelto di partecipare a questo concorso? Qual è la sua impressione iniziale sulla nostra Scuola universitaria di Musica?
Partecipare a questo concorso è stata una scelta naturale. Conosco l’importanza e la fama dell’istituzione già da quando ero studente. A livello internazionale, è un’istituzione di grande prestigio e far parte del corpo docente di questa scuola è un onore per me. Inoltre, il momento in cui mi è stata offerta questa opportunità è perfetto nella mia carriera, poiché sento di poter dare molto ai giovani studenti grazie alla mia esperienza. L’impressione iniziale sulla Scuola universitaria di Musica è stata di grande sorpresa nel vedere la fluidità con cui le cose funzionano qui. È evidente che il progetto nel suo complesso mette lo studente al centro, offrendogli un corpo docente da fare invidia anche ai più grandi conservatori d’Europa, i migliori programmi di studio e molte opportunità orchestrali con repertori da orchestra professionale per acquisire esperienza. Il Conservatorio della Svizzera italiana ha sempre funzionato in questo modo, come ho potuto constatare dai colleghi che già insegnano qui e dagli ex-studenti che ho incontrato nel corso degli anni.
Un consiglio per i futuri studenti: quali sono le principali sfide che un giovane oboista deve affrontare oggi?
Il consiglio principale che posso dare ai futuri studenti è di non perdere mai di vista il proprio obiettivo e di concentrarsi su di esso con determinazione. Studiare regolarmente e cercare di non farsi distrarre dalle tentazioni della nostra società. Guardare al mondo del lavoro con impegno e cercare di partecipare a quanti più concorsi possibile, preparandosi adeguatamente. Fondamentali sono la determinazione e la costanza nello studio, poiché queste qualità permettono di crescere quotidianamente e col tempo si raccolgono i frutti del proprio impegno.