Pierre Alexandre Tremblay è il nuovo professore associato di ricerca in teoria e composizione musicale. Québécois di nascita, ha vissuto diciannove anni in Inghilterra dove è stato professore di composizione e improvvisazione presso l’Università di Huddersfield. Compositore e interprete di basso elettrico e dispositivi elettronici, dagli anni ’90 si occupa di musica elettroacustica e mista, di basso post-free-jazz e laptop music (come parte del collettivo londinese Loop), e di produzione e performance di musica popolare. Anche la sua ricerca accademica è alimentata da questo avvicinamento alla pratica musicale e si esprime attraverso un dialogo aperto e costante con l’insegnamento e il tutoraggio nella composizione (studio, strumentale, mista), nella produzione in studio (pop, musica improvvisata, jazz), nella computer music e nel sound design. Lo abbiamo intervistato.
Professor Tremblay, come descriverebbe l’area in cui è incentrata la sua ricerca?
“La mia area di ricerca può essere ampiamente definita come la creazione musicale con tecnologie contemporanee. Deriva dalla pratica compositiva e improvvisativa ma include anche una struttura teorica in continua evoluzione, la creazione della sua infrastruttura e degli strumenti necessari, un insegnamento potenziante e una valutazione critica”.
Quali motivazioni l’hanno spinta a candidarsi per la posizione di professore associato al Conservatorio della Svizzera italiana?
“Ritengo che lavorare al CSI sia molto allettante per due ragioni. A livello disciplinare, c’è un team fantastico che svolge un lavoro straordinario nella composizione, attraverso la pratica, l’insegnamento e l’organizzazione di eventi pubblici. I lavori di Nadir Vassena e Giovanni Verrando sono profondamente radicati nella ricerca e il loro insegnamento ha ispirato un membro più giovane dello staff, Alberto Barberis, a organizzare un festival all’avanguardia nel creative coding per la musica (Meet Music Code, ndr.). Tutto questo mi ha dato la certezza che la mia ricerca pratica avrebbe trovato casa a Lugano, e che avrei potuto sviluppare una formalizzazione della ricerca in composizione all’interno di un team molto forte”.
E la seconda ragione?
“È istituzionale: il bando prevedeva la nomina di tre professori di ricerca per cinque anni. Questo aspetto denota la presenza di una visione e di un desiderio da parte dell’istituzione di investire nella costruzione di una comunità di ricerca ancorata e in dialogo con le materie insegnate, ben oltre la creazione di un dipartimento isolato. Ciò mi permetterà di lavorare, come detto, con il corpo docenti di composizione per integrare insegnamento, pratica e ricerca, ma anche con gli altri professori di ricerca per sviluppare una ricca visione interdisciplinare di ciò che può essere oggi la ricerca in ambito musicale”.
La sua area di ricerca, che presenta al tempo stesso aspetti di iperspecializzazione e aspetti di grande transdisciplinarietà, sembra essere centrata sul lavoro di manipolazione del suono attraverso strumenti digitali (è in questo campo, ad esempio, che il suo progetto “Fluid Corpus Manipulation” ha ottenuto un importante finanziamento dell’European Grant Research Council). Sono possibili, oggi, una scienza e una tecnologia musicale senza una pratica e un artigianato musicale? Quante e quali di queste competenze sono necessarie e prioritarie per chi si avventura nel campo eterogeneo della teoria e della composizione?
“In effetti, la mia ricerca si articola in parallelo su dimensioni diverse, dallo sviluppo dell’infrastruttura critica fino alle varie performance che cristallizzano lo stato attuale della pratica. Sono un forte sostenitore del fatto che la creazione musicale sia allo stesso tempo iperspecializzata e profondamente interdisciplinare, e molto spesso radicata nella ricerca senza necessariamente esprimere l’acquisizione della conoscenza con parole. L’artigianato è necessario in tutte le pratiche riflessive e critiche, comprese quelle scientifiche e tecnologiche, e ovviamente anche in quelle artistiche. La domanda principale è come articolare tali scoperte in modi che le rendano responsabili nei confronti della comunità a cui contribuiscono.
Concretamente, uno specialista in composizione al computer sentirebbe direttamente nella mia musica le proposte basate sulla ricerca. Per una prospettiva più ecosistemica, articoli e keynote esplicitano meglio domande, dubbi e risposte”. *
Quante e quali di queste competenze sono necessarie e prioritarie per chi si avventura nel campo diversificato della teoria e della composizione?
“La competenza più importante che spero di trasmettere ai nostri studenti è il pensiero critico. Spero di mostrare loro come possa essere ancorato in una pratica riflessiva, e al tempo stesso abbastanza divergente da proporre nuove soluzioni ai vari problemi che i musicisti devono affrontare”.
In un contesto come quello del CSI, in cui la quasi totalità del corpo docenti si è formata e opera in un ambito “classico” e su materiali sonori tradizionali, quali possono essere le sfide per trovare un’integrazione e quali le opportunità per entrambe le parti in gioco (formazione e ricerca)?
“Tradizionalmente, le conoscenze che i musicisti professionisti creano, non sono state accettate come “ricerca”, ma negli ultimi decenni le sfide a questa gerarchia si stanno facendo sempre più forti. Questa è una grande opportunità per invitare chiunque sia interessato a contribuire più esplicitamente a una cultura della ricerca sfaccettata. Allo stesso tempo, vedere le somiglianze tra qualsiasi pratica riflessiva profonda aiuterà tutti a ottenere una maggiore comprensione della ricca diversità della creazione musicale odierna”.
Québec, Huddersfield, Lugano: tre regioni del mondo, tre paesaggi culturali e linguistici diversi. Le specificità locali hanno un peso nell’indirizzare il lavoro di ricerca, o il contesto di riferimento è sempre quello globale?
“Questa è una domanda affascinante, che ho affrontato in un’intervista comparativa condotta dalla musicologa e compositrice Ana Dall’Ara-Majek su quattro profili di espatriati. La bellezza dell’espatrio è che mostra davvero quanto sia profondamente situato tutto ciò che solitamente diamo per scontato, comprese le qualità di ciò che rende buona la musica. È facile capirlo razionalmente, ma avere un’esperienza personale di alienazione è stato fondamentale per aiutarmi ad abbracciare la polifonia delle pratiche musicali (e di ricerca) contrastanti e a trovare modi per costruire ponti tra queste comunità. Spero che questo ci dia nuovi modi di pensare a cosa possa significare un contesto globale”.